Stamattina ho riletto Chi siamo.
Un flash di ricordi, belli e brutti, in un baleno la storia del mio spazio, che si intreccia alla mia vita, legati da unfilodi -meglio se- lana (anche se ho camminato e sto camminando su un filo di lama -purtroppo non quello dell'animale omonimo-).
Non ho guardato a quando risale l'articolo, ma ho trovato la presentazione lontana nel tempo, come quando si sfoglia un vecchio album di foto e si dice, ah è vero, guarda qui, non mi ricordavo fosse così, ci sono pure loro, che adesso non sono più tra noi (le stoffe, n.d.r.)...Così eravamo. Chi eravamo.
Unfilodi è nato nel contesto della casa di cortile, perchè volevo ricreare lo spazio dove sono nata e cresciuta, dove ho imparato ad amare la lana, ad osservare il lavoro delle donne di cortile, dal senso di comunità che si sentiva nell'aria, la vita scandita da ritmi precisi, sempre uguali.
La mattina, dopo la spesa, sotto casa, dal pustè, i mestè, i lavori domestici, con qualche chiacchera da un balcone all'altro, il solito l'è gemò mesdì, parola d'ordine che faceva rientrare tutte in casa, è già mezzogiorno.
Ogni tanto (spesso) si sentiva da una porta, o dall'altra ul risot l'è tacà giù, per indicare che le chiacchere erano state troppe, ed il risotto sapeva irrimediabilmente di bruciato.
A Carate erano pochi i contadini. Gli uomini lavoravano nelle
fabbriche, in particolare alla Formenti, dove c'erano gli altiforni (da
bambina questa parola mi incuriosiva, e immaginavo un enorme forno,
dove si buttava il carbone e dall'altra parte usciva il ferro colato,
in una specie di girone dantesco).
La giornata del nostro paese era quindi scandita dalla sirena dei vari
turni -sirena che suona ancora, benchè la fabbrica Formenti non ci sia
più da trent'anni-.
Quindi il mezzogiorno era sacro. La sigla de Il Gazzettino padano (la
"Bela gigugin") risuonava di casa in casa, dalle radio gracchianti ed
enormi di allora. Gli uomini uscivano dal lavoro e dovevano mangiare in
fretta, perchè alla una e mezza riprendevano il turno.
Mio padre aveva lo studio in piazza, il retro era all'interno del
cortile (dove lui è nato e cresciuto e dove io sono nata e ci ho
abitato fino a quando avevo cinque anni), mia mamma lavorava con lui in
ufficio.
Noi avevamo orari differenti dal resto del cortile. Pranzavamo alla
una, se tutto andava bene, spesso alla una e mezza, ora che il paese,
dopo un brulichìo di biciclette e motorini, si svuotava di nuovo.
Io, quindi, nel frattempo. avevo già mangiato dalla zia Maria, dalla
zia Antonietta o da qualche altra zia (le chiamavamo tutte zie, noi
bambini, le donne del cortile) quel famoso risotto bruciato -almeno uno
c'era sempre- e mi ero fatta almeno due o tre "puccini" col pane (vedi sotto).
Il pomeriggio era il momento più bello della giornata. Fuori le sedie
sulle ringhiere, le donne facevano la maglia. Le donne caratesi hanno
sempre avuto questa passione, come quelle di Cantù per il tombolo.
Facevano la maglia e i pettegolezzi non si sprecavano. Quelli più
piccanti si dicevano a bassa voce, ma quella della ringhiera di fronte
voleva sapere anche lei, così il segreto doveva essere gridato -ah, se
ci fosse stato il garante della privacy!-.
Allora (altro flash, in nome del padre ed nel suo ricordo, domani sono
27 anni che non è più con me) mio papà si affacciava nel cortile a dire
la sua battuta o la sua versione dei fatti. Sciur Carlo, sel dis cusè...Signor Carlo, cosa dice! Ilarità
generale, dopo l'imbarazzo iniziale. Mio papà sapeva raccontare bene le
storie, era divertente e dissacrante, ironico quel tanto che
basta...-ciao, papà-.
La zia Maria era specializzata, oltre che nel risotto giallo, negli scalfitt, calze, e nei gipunin, maglie intime. La zia Antonietta faceva i pucitt
(ossobuco o spezzatino in umido, dove si poteva "pucciare" il pane) e
i centrini all'uncinetto, il punto croce, ma con la lana, quindi il mezzopunto, non me lo ricordo chi lo facesse, forse la Maria Rizulina -soprannome per indicare i suoi capelli ricci, da ragazza-, oltre a idem come sopra, con patate, però.
Sembravano vecchie, le donne di allora, in effetti erano poco più che
quarantenni, e forse questo retaggio mentale, dovuto all'immagine che
avevamo di loro, noi bambini, ha fatto sì che si associasse poi la
maglia alla nonna.
Alle sei (anche adesso a Carate c'è l'usanza di dire -oltre a l'è gemò mesdì- in gemò ses ur, sono già le sei) le sedie una dopo l'altra sparivano, il cortile si zittiva.
Questo silenzio lo portai con me quando andammo via dal cortile e venni
ad abitare qui, dove sono ora, avevo cinque anni (ed il vuoto, più che
sentirlo, lo rivedo ancora, io bambina dietro i vetri a piangere e a
rimpiangere la mia vecchia casa).
La storia di Unfilodi è simile alla mia, dopo cinque anni, dal cortile alla casa, tanto odiata all'inizio ed al contempo amata.
Silenzio -ma ora lo sento come ritrovamento di una pace interiore, come
una riconciliazione con la mia casa, e non come abbandono o torto
subìto- rotto dall'arrivo delle corsiste e delle clienti.
E poi ci siete voi che entrate in questa casa virtualmente e siete
tante, ottocento in un giorno, e devo ricevervi al meglio, devo fare
come mio papà e ogni tanto smettere di lavorare e fare capolino a dire
la mia.
E tante volte, altro che risotto attaccato!
P.S. Metto in alto una foto molto datata di mio papà con me, piccolina,
in cortile -sono poche le foto che ho di lui, odiava farsi
fotografare-.
Cosa c'entra, direte. Beh, devo soprattutto a lui se Unfilodi è nato e può crescere e avere una casa tutta sua.
Perchè sono sua figlia e mai come ora vedo i tratti ed i percorsi
mentali che ci accomunano, poi per una sorta di riconciliazione con
lui.
Non ho mai pianto la sua morte, perchè non l'ho mai perdonato di avermi
lasciato sola, di non essere stato abbastanza forte da reggere al
dolore della malattia di mia mamma -è morto dopo sei mesi d'infarto-.
Non riuscivo a perdonarlo di avermi "strappata" dal cortile. Ora l'ho fatto io, metaforicamente e simbolicamente, con Unfilodi.
Sono finalmente a casa, nella casa che fece per me mio papà.
In Chi siamo dedicai Unfilodi alle donne di cortile, ora la Knit-House Unfilodi è dedicata a mio padre, interamente a lui.
Che ci crediate o no, sto piangendo.
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